Dopo Masterchef, la chef Irene Volpe sfida l’anoressia: “Accettarsi è la chiave per uscirne”
L’ex concorrente di Masterchef Irene Volpe, che oggi lavora come cuoca, lotta da sei anni contro il disturbo alimentare. “Tutti dicono che per forza dobbiamo occupare un posto nel mondo, ci inscatolano, c’è una pressione sociale fortissima”
Martina CataldoCollaboratrice lavialibera
Una carriera davanti ai fornelli. Una dura lotta con se stessa per far prevalere la parte bella del cibo su quella brutta. Irene Volpe, 26 anni, ex finalista di Masterchef 10 Italia, ha fatto della cucina la sua vita, nonostante quando aveva 20 anni si sia ammalata di anoressia. Ad aiutarla, la terapia e il sostegno di amici e famiglia.
“Il disturbo alimentare è un sintomo di un malessere molto più radicato – racconta a lavialibera – che ci portiamo dietro anche dall’infanzia, non ci si ammala dall’oggi al domani. All’inizio chi soffre di un disturbo alimentare pensa di essere invincibile e di riuscire a guarire da solo, quando invece bisogna affidarsi e fidarsi dei medici”. Oggi i disturbi del comportamento alimentare interessano quasi tre milioni di persone, per la maggior parte adolescenti. Non c’è solo l’anoressia nervosa – la patologia più nota e visibile – ma anche bulimia, binge eating (l’alimentazione incontrollata), vigoressia e ortoressia.
Quando hai capito che non stavi bene?
Ho iniziato ad avere i primi problemi con il cibo a 20 anni, mentre facevo un viaggio studio da sola. Ho perso molto peso, anche perché avevo praticamente smesso di mangiare. Per fortuna ho capito che qualcosa non andava, spesso chi soffre di un disturbo alimentare non se ne accorge subito. A quel punto ho chiesto aiuto alla mia famiglia e ho iniziato il percorso di cura. Non è un percorso in discesa, ci sono continui alti e bassi.
Cosa prova chi soffre di un disturbo alimentare?
Disagio, ma soprattutto solitudine. È un sentirsi soli con se stessi. C’era una parte di me che non riuscivo ad accogliere, mettevo gli altri sempre davanti a me. Per stare bene e non sentirsi soli bisogna ascoltarsi, accettarsi e darsi tempo.
C’era una parte di me che non riuscivo ad accogliere, mettevo gli altri sempre davanti a me. Per stare bene e non sentirsi soli bisogna ascoltarsi, accettarsi e darsi tempo
Solitudine nel rapporto con se stessi o anche con gli altri?
Quando il disturbo si è palesato la prima volta ero lontana da casa e dalla mia famiglia, in un certo senso ero sola. Durante una seconda ricaduta, i legami e le amicizie create anche grazie all’esperienza di Masterchef mi hanno aiutata. Il disturbo alimentare non ti fa pensare ad altro, riempie tutta la giornata e tutti i pensieri, in quei momenti è come se non ci fosse spazio per la socializzazione. Ho avuto la fortuna di avere accanto persone che conoscevano le mie paure e i miei pensieri e mi sono rimessa in gioco. Tuttavia, quel tipo di solitudine, quella più “scura” come la chiamo io, non andava via.
Hai parlato di paure nell’accettare le emozioni, cosa intendevi?
La paura di vivere e di tornare a vivere. Come se provare paura bloccasse in qualche modo il percorso di guarigione. Non è tanto essere spaventati dalla malattia, ma da quello che potrebbe succedere una volta guariti. Quella è l’emozione che mi ha accompagnata, a volte paralizzandomi. Provi un senso di inadeguatezza, seppure i motivi di questo terrore possano essere tantissimi. Ogni caso è specifico e ogni disturbo alimentare ha delle caratteristiche precise.
Non è tanto essere spaventati dalla malattia, ma da quello che potrebbe succedere una volta guariti. Quella è l’emozione che mi ha accompagnata, a volte paralizzandomi
Esiste un legame tra il senso di inadeguatezza e lo sviluppo di un disturbo alimentare?
In base al proprio carattere e alle fragilità di ognuno, in una società come quella attuale è possibile sentirsi inadeguati e inferiori, soprattutto quando si è adolescenti. I disturbi del comportamento alimentare colpiscono soprattutto i giovani perché si stanno formando e cercando di capire che cosa fare da grandi. Tutti ci dicono che dobbiamo occupare per forza un posto nel mondo, ci inscatolano, c’è una pressione sociale fortissima e questo può portare a sviluppare un disturbo alimentare. Occorre insegnare ai ragazzi ad accettare quello che ognuno sente dentro di sé, l’importante è essere flessibili e non pensare che la propria esistenza sia stata già definita.
Nel 2023 ha sofferto di un disturbo alimentare il 40 per cento di persone in più rispetto al 2022. È anche colpa dei social network?
Con i social puoi rendere belle cose che in realtà non lo sono. Le immagini delle vite perfette di gente in apparenza perfetta hanno una presa particolare su molti di noi e ciò che vediamo e non possiamo raggiungere può influenzarci. Bisognerebbe smettere, ad esempio, di alimentare la cultura della dieta, ma la prevenzione, quella vera, si fa in famiglia e nelle scuole.
Ci sono solo 900 posti letto a fronte di più di 3 milioni di persone che soffrono di disturbi alimentari, oltre a liste d’attesa infinite. Hai avuto difficoltà a curarti?
Sono fra le persone fortunate che possono fare tutto privatamente. All’inizio mi sono rivolta anch’io a un centro di cura pubblico, ma la lista d’attesa era lunghissima e così mi sono affidata a un’equipe di specialisti – psicologa, nutrizionista e medico – che mi hanno seguito in privato. Oggi posso dire che non è possibile guarire senza il supporto di professionisti, un diritto che dovrebbe essere garantito a tutti.
All’inizio mi sono rivolta anch’io a un centro di cura pubblico, ma la lista d’attesa era lunghissima e così mi sono affidata a un’equipe di specialisti privati
Quanto è difficile seguire le indicazioni dei medici?
È fondamentale, anche quando ti sembra che quei consigli non abbiano alcun senso. Ad esempio, gli insegnamenti per regolare i pensieri ossessivi, che all’inizio giudicavo inutili ma che invece andando avanti con la terapia risultano molto utili. A volte sembra che il percorso sia infinito e che non si facciano passi in avanti ma in realtà non è così. Uno dei dottori che mi ha seguito diceva che è come attraversare un fiume in piena.
Che intendeva dire?
Che per guarire bisogna attraversare da una sponda all’altra un fiume irruento e difficile da navigare. Durante il guado non puoi smettere di remare, altrimenti le correnti ti trascinano via e devi ricominciare daccapo. Man mano che si continua, invece, il fiume diventa sempre più calmo. E una volta arrivati alla meta, il paesaggio appare bello, calmo e sereno. Ho vissuto e vivo ancora la mia esperienza proprio così, scoprendo che non c’è niente di male ad accettare di non essere invincibili, nessuno lo è.
Cosa significa lavorare a stretto contatto con il cibo, il tuo “nemico”?
Il cibo è fonte di gioia e di dolore, la sfida quotidiana è far prevalere la prima sulla seconda. La mia passione per la cucina è nata prima del disturbo e mi accompagna fin da quando sono piccola, poi l’anoressia mi ha portata a controllare tutto quello che cucinavo e mangiavo, ma anche quello che mangiavano gli altri, soprattutto i miei familiari, perché il controllo è alla base di questa patologia ed è su quello che bisogna lavorare.
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