Riccardo Cocciante: «Mi sentivo bruttissimo e ho sofferto la mia diversità, sono nato in Vietnam: ero un outsider. Oggi? Si seguono troppo le mode»
Sono le canzoni che scrivono la storia di un artista. Riccardo Cocciante è in testa se facessimo la lista di chi è rimasto attuale nel tempo che passa e con le mode che cambiano. L’essenzialità, il sentirsi diverso senza per questo fermarsi, andare avanti di fronte a cancelli sbarrati, sono il motore che ha alimentato la sua musica, rendendola forte e unica.
«Ho aperto porte che non avevo prima e ho rotto muri che non conoscevo»: l’epoca di cui parla è un viaggio a 50 anni fa. Al 1974, data in cui viene pubblicato “Anima“, il suo terzo disco che gli ha fatto spiccare il volo del successo, con la copertina di Folon e canzoni arrivate intonse fino a oggi, da “Bella senz’anima” a “Quando finisce un amore”, replicate nei talent o nel repertorio di altri artisti, come Laura Pausini con “Io canto”. L’Arena di Verona per Cocciante – che si esibirà in un’unica data il prossimo 29 settembre – sarà il momento per raccontarsi. «Mi sembra un miracolo e sono riconoscente al pubblico. Ringrazio chi verrà».
Cocciante, 78 anni, perché si sorprende?
«Perché non è scontato questo affetto. Ho vissuto di complessi di inferiorità, mi giudicavo, mi vedevo bruttissimo e piccolo, un ufo. Ero ben lontano dalla figura del cantante di quei tempi. Ho subito, come ha subito Renato Zero. Ero diverso. E quando si è diversi, è vero combattimento dire qualcosa che non è omologato al sentire comune, nonostante dentro io avessi consapevolezza come la musica fosse la mia reale aspirazione».
Il concerto di Verona, tra pochi giorni, sarà un evento unico, per il suo pubblico senza età e per fare i conti con un anniversario importante. E’ emozionato?
«E’ un happening, non riesco a descrivere bene il sentimento che sto provando, sono contento, ho un po’ di ansietta e ho tanta gratitudine. Sarà il racconto di un uomo che, come tutti gli uomini, non è perfetto ma che ama l’imperfezione. Il concerto è un scambio reciproco con chi ascolta, si vive facendolo. Ci saranno canzoni conosciute e canzoni più nascoste che per me hanno valore».
“Anima” merita festeggiamenti.
«Anima finalmente diventa un qualcosa di concreto, finora è stato materializzato in vinile (ride, ndr) o in televisione. Non sarà basato sull’orchestra perché vorrei tornare all’essenzialità di un tempo, vorrei replicare le canzoni dell’epoca con un rock aggressivo e con i cori. Un musica senza troppe limature. A differenza di oggi, in cui si abusa di orchestra, di arrangiamenti e in cui si punta al look. Si deve salire sul palco portando se stessi, con un pensiero e un’anima, e non solo per fare vedere la faccia e le gambe».
La critica è rivolta a chi?
«La mia è una piccolissima critica all’attualità. Reputo importante che ogni artista abbia la libertà di scegliere, che segua ciò che sente, perché la diversità conta. I tempi certamente cambiano e cambiano le maniere di esprimersi. Ogni cantante deve puntare sull’essenziale, come diceva Saint-Exupéry, senza sovraccaricare. Va di moda l’apparenza, io non critico la moda, ma non mi piace l’abuso che se ne fa».
Si abusa tanto?
«Se non si ha molto da dire, sì. Quando un artista ha tanto da dire non ha necessità di esagerare. Penso alla semplicità di Notre Dame de Paris (in scena, un muro e due colonne). Penso al passato, alla musica di Jacques Brel, di Edith Piaf. Penso ad oggi, ai concerti di Adele a Londra, di Elton John solo al piano. Anima è quella cosa che c’è ma che non si vede. E la dote di un cantante di esistere o di non esistere sul palco. Cantare è andare a ricercare nel profondo chi siamo. Cantare è spogliarsi, cantare è mettersi a nudo».
Riccardo Cocciante (ph credit Cosimo Buccolieri)
Oggi di vestiti se ne vedono pochi sul palco.
«Bisogna rispettare i tempi. Ai tempi di Mina ci si vestiva in un modo, oggi ci veste diversamente e si mostra di più. Una donna, ma anche l’uomo, ibrido. Ci sono tanti artisti con cui io collaborerei, tra loro c’è Elodie. Bravissimi cantanti, ma che spesso vengono guidati male, indirizzati verso qualcosa che funziona ma che dimentica l’essenza. Una buona guida ti fa andare anche contro la moda del momento. La moda si crea restando chi si è, senza seguire chi ti fa diventare un prodotto commerciabile. In passato avevamo un approccio artigianale. E io sono rimasto ancorato a quel modo di fare, non amo questa troppa industria».
Come fu pubblicare “Anima”?
«Estremamente difficile. Il disco fu subito bocciato. Mi proposero di esibirmi al Teatro dei Satiri di Roma con Venditti e De Gregori che, a differenza mia, avevano già un buon piazzamento. Io non avevo nulla da perdere. Il concerto fu una rivelazione. Venne tutto il mondo della discografia, c’era il pubblico che ha capito sia ciò che si stava aprendo in quegli anni con Antonello e Francesco, sia uno come me, un contestatario, pur non essendo politico. Loro andavano al Festival dell’Unità, io no».
Perché non ci andava?
«Non invitavano me. Ma anche se mi avessero invitato, non sarei andato. Non volevo che mi si desse un’etichetta, non amavo mi si associasse un’immagine che non mi apparteneva. Sono nato in Vietnam, ho vissuto 11 anni lì, poi mi sono trasferito in Italia, studiavo in un liceo francese, ascoltavo l’opera, il r&b, la musica nera. Mi sentivo libero e tale volevo rimanere. Un outsider».
Il concerto era Stasera insieme: ci sarà un momento all’Arena per replicare quell’immagine con Gregori e Venditti?
«Non abbiamo tanti contatti. Mi hanno associato a loro in quel particolare periodo storico e culturale. Ma io non ero un cantautore politico».
E le canzoni?
«La politica è temporanea, l’allegoria è continuativa. Le mie canzoni le reputo allegoriche, non politiche. Nonostante questo, avevano dentro una proposta di rivolta verso l’epoca che volgeva al cambiamento, mentre “Bella senz’anima” continuava a non essere accolta dalla radio nonostante l’impegno di Ennio Melis (padre dei cantautori italiani, ndr) e di Ennio Morricone nel lavorare nuovamente il disco. Furono anni in cui pensavo di non farcela. Finché un giorno mi chiamarono per dirmi che il singolo era primo in classifica, grazie ai disk jockey che lo facevano passare nelle loro serate durante il momento dei lenti. Da quel giorno Bella senz’anima è caduta su di me. Fare una canzone di successo sembra un arrivo, ma è semplicemente una partenza».
E Riccardo Cocciante, con Bella senz’anima, riuscì a partire.
«Ho aperto porte che non avevo prima e ho rotto muri che non conoscevo, da attaccante quale mi sentivo, mi sono rasserenato. Questo disco ha aperto orizzonti. In Italia, ma anche in Spagna e nel Sudamerica, dove passa addirittura la censura. Il disco era un inno alla libertà, negli anni di Franco e di Pinochet. “Mu” e “Poesia”, i miei primi due dischi, erano dischi di sperimentazione, dischi in cui provavo a capire chi volevo essere e in cui cercavo di percepire la risposta del pubblico. Era la peculiarità della discografica di allora, che oggi non esiste più: la possibilità che ci veniva data di sbagliare. Io, Lucio Dalla, Franco Battiato, Renato Zero, provavamo, sperimentavamo, andavamo contro le mode per seguire le nostre personalità. Oggi è urgente fare un disco o, ancora peggio, una sola canzone, per puntare a fare centro subito. Ma una canzone racconta solo una piccolissima parte dell’artista e niente più».
Cosa manca oggi?
«Oggi mancano gli autori, mancano figure come quella di Mogol per Lucio Battisti. Oggi si seguono troppo le mode: è così che il rap – da musica di protesta e di rottura – si è omologato al commerciale, al carisma del personaggio che prende il posto del ritmo stesso. Manca un premio, un sorta di Grammy che dia luce alla nostra categoria che altrimenti resta marginale alle sole “canzonette”. Ma la canzone non è solo “canzonetta”, c’è la canzone per ridere, d’autore, per ballare, il rap, c’è l’emergente. Mina, Modugno, Gino Paoli non hanno mai ricevuto un premio. Non basta vincere Sanremo. Sanremo è un concorso e basta. Va dato un premio a chi esiste e a chi persiste nel tempo. Questo è il vero successo per me».
Riccardo Cocciante (ph credit Cosimo Buccolieri)
Qualcuno ci aveva provato.
«Ci provano, ma poi non se ne fa mai niente. Ogni volta che si cerca di istituire un premio entrano in gioco un sacco di interessi. Ci vorrebbe quell’imparzialità che darebbe importanza a tutta la categoria, una categoria che diventa sempre più strutturata e preparata. Da ciarlatani e improvvisatori, ci siamo inventati tutto: io, cantante, attaccavo fili, amplificavo pianoforti, chiedevo cose che poi sono diventate uso comune, come gli auricolari e il gobbo o teleprompter, come si vuole chiamare. Era la categoria del fai da te che ha inventato un sacco di cose».
In programma, dopo Verona, cosa c’è?
«Io non mi fermo mai. Album nuovi, storie nuove. Chissà. Ho tante cose in testa, bisogna solo che io trovi il tempo».
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